In un dibattito furente col pubblico, all’interno di uno spazio scenico tradotto in arena secondo i dettami del più autentico teatro elisabettiano, Shylock, il vero protagonista di uno dei massimi capolavori shakespeariani, Il Mercante di Venezia, è chiamato a proclamare tutte le proprie ragioni andando finalmente al fondo di una storia dal cui lieto fine è l’unico a essere escluso, e nel modo più feroce possibile. A consentire questa fiammeggiante controrequisirtoria, accesa di lampi visionari ma anche di grottesche vanità, è la presenza di un personaggio-medium, una sorta di guida turistica che, a nome dell’intera platea, cercherà di stabilire con lui un abbozzo di difficilissima comunicazione. E se i toni sembreranno essere quelli di un processo (così come nel quarto atto dell’opera originale), non ci sarà da stupirsi se questo Shylock potrà confrontarsi con testimoni sia a carico che a discarico. A rappresentanza dei primi, Jessica, sua figlia, che nel dramma (o commedia, secondo i più) non esita a tradirlo fuggendo con un cristiano e oltretutto portando via con sé parte dei beni paterni; a rappresentanza dei secondi, Tubal, altro ebreo costretto a vivere recluso nel ghetto, che qui sembra incarnare un’intero popolo destinato nei secoli futuri alla più atroce delle tragedie collettive, cosa di cui a tratti il nostro Shylock sembra avere una folgorante preveggenza.